da Marika Savino mancano 4 anni
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Jacopo Carrucci nacque a Pontormo, piccolo borgo nei pressi d’Empoli cui si deve il suo soprannome, il 24 maggio 1494.
Secondo il Vasari anche il padre, Bartolomeo Carrucci, era un pittore che aveva studiato alla bottega del Ghirlandaio, ma questo non può aver influito sulla formazione di Jacopo, data la prematura morte di Bartolomeo, avvenuta nel 1499, quando il figlio aveva all’incirca cinque anni.
E', però, probabile che, in seguito agli altri gravi lutti che colpirono la famiglia, la morte della madre nel 1504, quella del nonno nel 1506, il giovane Jacopo sia stato avviato alla carriera di pittore in considerazione del mestiere svolto dal defunto padre.
La “Vita” del Vasari racconta, infatti, che dopo il suo arrivo a Firenze, voluto dalla nonna che lo affidò alla magistratura che si occupava degli orfani, amministrandone e custodendone i beni, adolescente, fu messo a bottega presso Leonardo da Vinci e poi da Piero di Cosimo, da Mariotto Albertinelli ed infine con Andrea del Sarto . A diciannove anni, nel 1513 il suo percorso di apprendista pittore si concludeva con la produzione delle sue prime opere. Il debutto ufficiale fu alla Santissima Annunziata, interessata in quegli anni da un intenso programma di decorazione, di cui resta un'abbondante documentazione. Gli importanti lavori di decorazione legati alla visita di Leone X a Firenze gli procurarono del lavoro. Cosimo di Andrea Feltrini, specialista di grottesche, era stato incaricato di decorare l'arcone d'ingresso dell'Annunziata con varie figure, ma la strettezza dei tempi rese necessario il ricorso ad aiuti, tra cui il diciannovenne Jacopo, che realizzò così le figure della Fede e della Carità, oggi molto danneggiate (gli originali sono al Museo di San Salvi, mentre in loco si conservano copie). L'opera ebbe un notevole successo, scatenando anche - secondo Vasari - qualche invidia del maestro Andrea del Sarto.
Fu proprio Andrea che dovette affidare a due dei suoi allievi più promettenti, il Rosso e appunto Pontormo, la realizzazione di due lunette con Storie della Vergine nel Chiostrino dei Voti, ciclo in larga parte realizzato da Andrea del Sarto stesso negli anni precedenti. Pontormo creò così la Visitazione (1512-1513), dal saldo impianto monumentale. Il rapporto dialettico di emulazione di Andrea del Sarto, in cui il giovane Pontormo vedeva colui che era riuscito in un certo grado ad armonizzare lo sfumato leonardesco, la plasticità michelangiolesca e la classicità di Raffaello, durò circa fino alla fine del secondo decennio del secolo.
Al 1515 circa viene ipotizzato un primo soggiorno a Roma, basato solo su dati stilistici nelle sue opere, in cui si leggono riferimenti alla volta della Cappella Sistina di Michelangelo e alle prime due delle Stanze vaticane di Raffaello. Nel frattempo si inizia a notare infatti un crescente astro su Pontormo da parte del Buonarroti, riscontrabile in opere come la Sacra conversazione di san Ruffillo e, soprattutto, la Veronica.
Vasari dà un ritratto entusiasta del giovane Pontormo, quale giovane molto promettente, una specie di bambino prodigio nella pittura; anche i grandi Raffaello e Michelangelo riconoscevano l'eccezionale talento del Pontormo e gli avevano previsto una luminosa carriera artistica. Proprio questa lo avrebbe portato successivamente, secondo Vasari, ad abbandonare i "buoni modelli" della pittura e ad avventurarsi in sperimentazioni e innovazioni che al tempo non vennero comprese e che lo stesso Vasari giudicava bizzarre, smodate, eccessive. Oggi il giudizio di Vasari è ampiamente superato dalla critica, che vede in questi anni la fondamentale elaborazione di uno stile pittorico proprio, autonomo rispetto alla tradizione e decisamente anti-classico.
Tra le opere che meglio rappresentano questo passaggio, spiccano sicuramente i quattro pannelli per le Storie di Giuseppe ebreo (1517-1518 circa), parte di una decorazione più ampia destinata alla Camera nuziale Borgherini, assieme ad opere di Andrea del Sarto, di Francesco Granacci e del Bacchiacca.
Come appuntò con precisione Vasari, tra la fine del 1522 e il 1523 un focolaio di peste fece sì che Pontormo si allontanasse in via precauzionale dalla città, recandosi, accompagnato dal solo allievo Bronzino, nella Certosa del Galluzzo, dove trovò ospitalità dai monaci e ricevette vari incarichi, a cui attese fino al 1527. In particolare iniziò la decorazione delle lunette del chiostro con Scene della Passione, completandone cinque su sei (l'Inchiodamento alla croce restò a livello di disegno preparatori).
Al termine della decorazione ad affresco l'artista realizzò una grande tela con la Cena in Emmaus, destinata al refettorio della foresteria o alla dispensa.
La sua carriera come pittore comunque proseguì, sempre a Firenze, e nel 1525 Jacopo venne chiamato a far parte dell'Accademia del Disegno.
Dal 1526 al 1528 le sue ricerche formali raggiunsero il culmine nella decorazione della Cappella Capponi nella chiesa di Santa Felicita. Dipinti i tondi nei pennacchi con la collaborazione del giovane Bronzino e affrescato il lato est con l'Annunciazione (l'affresco nella volta con Dio Padre è andato perduto), dipinse per l'altare la pala con il Trasporto di Cristo al sepolcro dove, eliminato ogni riferimento spaziale, inserì undici personaggi in uno spazio indistinto, con gesti enfatici e volti dolenti, sottolineati dall'uso di colori puri e da una luce irreale.
Nel 1529 fu in grado di comprarsi una casa per abitare e lavorare, iniziando così a operare in una bottega propria. Racconta il Vasari che la sua casa era un rifugio: "alla stanza dove stava a dormire e talvolta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale, entrato che egli era, tirava su con una carrucola acciò che niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa". Anche per questi suoi atteggiamenti un po' bohémien, il Pontormo incarna un tipo di artista decisamente moderno.
Dal 1536 fu ingaggiato nuovamente da Cosimo I de' Medici per gli affreschi della villa medicea di Castello (opere perdute), e si dice che, per la volontà di finire da solo tutti gli affreschi, Pontormo si sia rinchiuso per cinque anni dietro un tramezzo di legno.
Dal terzo decennio del Cinquecento fino alla sua ultima fase artistica, Pontormo intensificò la riflessione sulle opere di Michelangelo, con la ferma volontà di riuscire a superarlo. Lunghi studi preparatori dimostrano la ricerca della perfezione formale, ma poi i risultati finali, in qualche modo, frustravano le sue aspettative.
In opere come i Diecimila martiri (1529-1530) è evidente il richiamo alla Battaglia di Cascina, con la figura dell'imperatore seduto in primo piano che ricorda il Ritratto di Giuliano de' Medici duca di Nemours del Buonarroti nella Sagrestia Nuova. Un riferimento alla Madonna Medici si trova invece nella Madonna col Bambino e san Giovannino degli Uffizi (1534-1536 circa), mentre opere su cartone michelangiolesco sono il Noli me tangere e Venere e Amore[13].
Il tema del nudo in movimento caratterizzato da torsioni del corpo si ritrova nei disegni preparatori per il completamento degli affreschi del salone della villa di Poggio a Caiano, impresa affidata nel 1532 da Ottaviano de' Medici su incarico di Clemente VII e mai portata a termine. Secondo la testimonianza di Vasari, Pontormo doveva rappresentare un Ercole e Anteo, una Venere e Adone e un gruppo di Ignudi che giocano a calcio fiorentino, riferimento ai recenti eventi dell'assedio, con la partita giocata sotto il fuoco nemico in piazza Santa Croce il 15 febbraio 1530. Dell'impresa restano i disegni del cosiddetto Giocatore sgambettante, collegabile a un disegno michelangiolesco di Tizio, e della sanguigna coi Due nudi affrontati, entrambi al Gabinetto dei disegni e delle stampe[14].
Altra imprese non andata in porto fu la decorazione della loggia della villa di Castello (1538-1543), della quale resta il disegno dell'Ermafrodito (sempre al Gabinetto Disegni e Stampe), in cui si trova il tema dell'ambiguità sessuale[14]. In queste opere si nota una sovversione delle regole del nudo michelangiolesco, dove al posto del vigoroso plasticismo le figure appaiono ora gonfie ora svuotate, al posto della descrizione anatomica attenta subentra un'evocazione più espressiva e personale delle membra e della loro consistenza[14
Dal 1546, il Pontormo lavorò per dieci anni - fino alla morte - alla decorazione del coro della chiesa di San Lorenzo, che era la chiesa della famiglia dei Medici[2]. Alla morte del Pontormo, furono portati a termine dal Bronzino, suo allievo di poco più giovane, e suo fedele amico per molti anni. Gli affreschi vennero distrutti nel 1738, in seguito al rimaneggiamento del coro, ma se ne conservano testimonianze scritte, come la stroncatura del Vasari, sia numerosi studi preparatori. L'insolita iconografia cristologica fa riferimento al trattatello cripto-protestante il Beneficio di Cristo, allora tollerato e che faceva capo agli ambienti della Riforma Cattolica: in esso si proclamava la fiducia nella salvezza individuale attraverso la sola fede. Lo stesso testo manoscritto era in possesso del simpatizzante riformista Pier Francesco Riccio, segretario particolare del duca Cosimo I de' Medici, maggiordomo di corte, cappellano della chiesa di San Lorenzo e delegato ducale alla politica artistica, quindi determinante nell'assegnazione al Pontormo del ciclo.
Gli affreschi degli ultimi vent'anni di vita del Pontormo sono quasi tutti perduti o rovinati, sia quelli nella villa di Castello che quelli nella villa di Careggi.
Negli ultimi due anni di vita (1554-1556), il Pontormo tenne anche un diario, Il libro mio, molto scarno e pieno di appunti di vita quotidiana, da cui emerge comunque la sua personalità bizzarra e cólta al contempo. Venne sepolto il 2 gennaio 1557 nella cappella di San Luca della basilica della Santissima Annunziata, per cui morì probabilmente il 31 dicembre 1556 o il 1º gennaio 1557.
Qualche anno dopo ricevette dai Medici il prestigioso incarico di decorare, con Franciabigio e ad Andrea del Sarto, la sala principale della Villa di Poggio a Caiano, cui lavorò dal 1519 al 1521: l’affresco rappresentante la scena pastorale “Vertumno e Pomona” è dominata da una luce tersa e da una natura rasserenante, rivela il costante michelangiolismo corretto dalla delicata elaborazione personale. In seguito, per sfuggire alla peste che nel 1523 imperversava a Firenze, il Pontormo si rifugiò nella Certosa del Galluzzo, nei pressi della città, trattenendosi anche dopo la scomparsa del pericolo. Qui dipinse una serie d’affreschi dedicati alla Passione di Cristo e ispirati alle stampe di Albrecht Dà¼re,, che rivelano un mutamento stilistico, una “maniera tedesca” di dipingere. Il mutamento di stile del pittore non fu apprezzato da Vasari, che considera il pittore notevolmente peggiorato rispetto alla giovinezza, ma nel 1525, a sottolineare i successi e la perfezione dei suoi dipinti, Jacopo venne chiamato a far parte dell’Accademia del Disegno. Dal 1526 al 1528 fu impegnato negli affreschi della Cappella Capponi nella chiesa di Santa Felicita, per il cui altare realizzò una pala con il “Trasporto di Cristo al Sepolcro”.
Nel 1529 Jacopo da Pontormo riuscì ad acquistare una casa per abitare e lavorare, iniziando così a lavorare in una bottega propria, con propri allievi. Nello stesso periodo realizza veri e propri capolavori, quali la “Visitazione” della Pieve di San Michele di Carmignano e, fra i ritratti, il vibrante “Giovinetto” e il fiero “Alabardiere”.
Dopo il 1530 Jacopo Carrucci negli affreschi delle ville di Careggi e di Castellosi, sperimentò lo stile di Michelangelo, per i quali si racconta che il pittore abbia lavorato per cinque anni dietro un tramezzo di legno, in modo da poterli ultimare da solo.
Tra le opere degli ultimi anni, in larga parte distrutte o rovinate, restano comunque convincenti alcuni ritratti, come la “Dama col cagnolino” di Francoforte, che condivide la preziosità aristocratica dell’allievo Bronzino.
Gli ultimi due anni di vita (1554-1556) vedono Pontormo impegnato anche nella stesura di un diario, “Il Libro mio”, assai utile per ricostruire la vita quotidiana e la complessa personalità dell’artista, morto probabilmente il 31 dicembre 1556 o il 1 gennaio 1557 e sepolto, il 2 gennaio 1557, nella chiesa della Santissima Annunziata.
è un diario personale che ricostruisce la vita quotidiana e la complessa personalità dell’artista
Due angeli spostano una cortina attorno allo stemma mediceo del pontefice, con due figure seduta ai lati e altri putti. A sinistra la Carità ha due putti vicino di cui si prende cura; a destra la Fede tiene il bastone pastorale.
Il mediocre stato di conservazione permette di apprezzare solo alcuni dettagli, come l'impostazione monumentale delle figure, derivata da
Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli, la ricchezza nella scelta dei colori complementari, la scioltezza delle pose, soprattutto nei putti.
Estatica fu la valutazione del Vasari, che ne riconosceva, giustamente, uno dei primi esempi della nuova maniera a Firenze: «di tanta bellezza, sì per la maniera nuova e sì per la dolcezza delle teste che sono in quelle due femine e per la bellezza de' putti vivi e graziosi [...]; la più bella in fresco che insino allora fusse stata veduta già mai; [...] tutte le figure hanno rilievo grandissimo e son fatte per colorito e per ogni altra cosa tali, che non si possono lodare a bastanza. E Michelagnolo Buonarroti, veggendo un giorno quest'opera e considerando che l'avea fatta un giovane d'anni 19, disse: "Questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest'arte in cielo". »
è più che mai evidente l'influenza delle incisioni di Dürer (in particolare la serie della Piccola Passione), che gli causò poi la disistima di Vasari stesso, che lo descrisse come notevolmente peggiorato rispetto alla sua gioventù: la maniera tedesca era dopotutto vista con sospetto negli anni della Controriforma in cui scriveva Vasari, scatenando ombre legate a simpatie luterane. Pinelli inoltre riscontrò similitudini nelle scene con un'altra opera nordica, la Passione di Hans Memling a quell'epoca a Santa Maria Nuova, istituzione pure retta dallo stesso priore della Certosa, Leonardo Buonafede.
In generale tali influenze si manifestano nei profili allungati e negli abbigliamenti dei personaggi, nonché la drammatica pateticità delle espressioni: con tali ricerche l'artista riuscì però a sciogliere tutti i legami con la tradizione fiorentina, arrivando a una nuova e liberissima sintesi formale.
Orazione dell'orto
Cristo dinanzi a Pilato
Resurrezione
Deposizione della croce
trovano espressione stilemi di chiara derivazione michelangiolesca, quali il moto a serpentina, le pose a contrapposto di figure simmetriche, la colorazione accesa e cangiante.
è presente un evidente riferimento alla Madonna Medici.
L’adolescente si staglia davanti ad una fortificazione con il busto di tre quarti e il volto frontale. La posa ricorda il David di Donatello ma le proporzioni seguono il gusto personale dell’autore.
La scena mostra il saluto tra Maria ed Elisabetta ed avrebbe significati simbolici relativi alla necessità di riforma della Chiesa. In odore di eresia, il quadro venne praticamente dimenticato dagli storici dell’epoca.
L'opera viene solitamente chiamata con il riferimento tradizionale alla deposizione dalla croce del corpo morto di Cristo, anche se a ben guardare non vi è rappresentata alcuna croce; sarebbe quindi più opportuno parlare di "trasporto di Cristo" verso il sepolcro e di compianto sul Cristo morto, come si evince
dalla presenza dei numerosi personaggi dolenti che si affollano attorno alla protagonista del gruppo, Maria vestita d'azzurro. Sicuramente l'episodio del compianto doveva avere un importante ruolo, essendo la cappella dedicata alla Pietà : si tratterebbe comunque di una pietà "dissociata", dove cioè madre e figlio non sono uniti ma separati.
La scena ha un’ambientazione priva di profondità e prospettiva, e i personaggi, disposti secondo una tragica composizione teatrale, appaiono sospesi in aria.
Ogni corpo è esageratamente esile, snodato, allungato; le teste sono estremamente piccole, accrescendo così l’impressione di
slancio. I colori presentano tonalità innaturali, gli sguardi vagano in varie direzioni, le vesti si incollano ai corpi come calzamaglie e le ombre sono leggere e inconsistenti.
L'opera era destinata al refettorio della foresteria o alla dispensa della
, vicino a Firenze, per questo conteneva un tema particolarmente appropriato per il luogo in cui si accoglievano e rifocillavano gli ospiti. Qui si era infatti rifugiato il pittore stesso nel 1523,
, per scampare alla peste, vivendo la vita dei monaci, silenziosa e solitaria, particolarmente adatta al suo carattere introverso. L 'episodio proviene dal
, quando Cristo risorto appare a due suoi discepoli che inizialmente non lo riconoscono e lo invitano a cenare con loro. A tavola però, nel gesto di benedire, spezzare il pane e distribuirlo, essi lo riconoscono: uno solleva il capo mentre l'idea sta balenando nella sua mente, l'altro versa invece il vino dalla brocca ancora inconscio. La rappresentazione dell'istante, unita a un realismo mai visto prima (nelle suppellettili, nelle reali mani e piedi dei personaggi, negli animali sotto il tavolo) e a un'accentuazione dei volumi dovuta allo sfondo scuro (ad esempio nelle apparizioni dei monaci certosini dietro Gesù), ne fanno un'opera di straordinaria modernità, anticipatrice delle ricerche di Caravaggio, Velázquez e Zurbarán.
L'opera è forse la più celebre e innovativa di tutto il ciclo pittorico Borgherini-Acciaiuoli. Racconta il ricongiungimento di Giuseppe con la sua famiglia in Egitto (Genesi 47,13 e 48) con una serie di episodi rappresentati contemporaneamente e su piani diversi, con un brulicare di personaggi e figure ispirato più alle incisioni tedesche che alle tradizionali composizioni italiane. Nordico è infatti l'aspetto di numerosi personaggi, delle vesti, del massiccio castello al centro e anche degli alberi che punteggiano qua e là il paesaggio.
In primo piano a sinistra Giuseppe presenta al faraone la sua famiglia da lui invitata a trasferirsi in Egitto; a destra Giuseppe procede sul carro trionfale trascinato da tre putti, mentre un quarto si erge su una colonna dietro il protagonista, il quale si sta piegando, aiutato da un altro fanciullo, verso un personaggio inginocchiato che gli presenta una supplica scritta, a simboleggiare il potere e la considerazione di cui egli godeva. A destra, su un edificio cilindrico, si avvolge una scala senza ringhiera, salita da Giuseppe che tiene per mano uno dei suoi figli mentre più in alto un secondo fanciullo è accolto dalla madre affettuosamente; dietro di essi sale il messaggero che ha mandato a chiamare Giuseppe su richiesta dell'anziano padre di lui
Giacobbe . Giuseppe, i figli Efraim e Manasse
sono infine accolti nella stanza aperta in alto a destra, dove Giacobbe, vecchissimo e ormai pronto a morire, impartisce loro la benedizione.
Il protagonista appare quindi più volte, in una sorta di narrazione continua, facilmente identificabile tramite la tunica ocra, il mantello violaceo e il copricapo rosso.
Tra i due edifici, ornati da statue che paiono vive, si assiepa una folla di persone mentre più dietro, tra i macigni di un sentiero in salita, alcuni personaggi di difficile identificazione rivolgono la loro attenzione a quello che avviene in primo piano. Tra le sculture, quella maschile di sinistra appare come un omaggio al Bacco
di Jacopo Sansovino , in una posa che sarà sviluppata pochi anni dopo nel suo San Quintino.
Secondo la testimonianza di
Vasari il ragazzo con la veste marrone e il mantello scuro seduto su un gradino al centro sarebbe un ritratto del giovane
Bronzino, allievo di Pontormo.
Si nota un tentativo riuscito di rompere gli schemi tradizionali, con scene più affollate e scandite nello spazio con più complessità. Ispirandosi alle stampe nordiche che proprio allora iniziavano circolare con frequenza anche a Firenze (soprattutto di Luca da Leida e Albrecht Dürer), l'artista ruppe con la tradizione tutta italiana di organizzare l'immagine attorno a un fulcro centrale, spargendo i personaggi ai quattro angoli del dipinto, in gruppi però sempre coordinati con giudizio, in modo da guidare, anche grazie alle particolari pose dei personaggi, l'addentrarsi dell'occhio dello spettatore in profondità. Andò sperimentando inoltre l'uso di colori accesi e brillanti, in mezze tonalità inusuali.